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"Ora ci devono restituire Stefano". Sono le uniche parole pronunciate subito dopo la sentenza da Marco Masala, il padre del ventinovenne di Nule di cui si sono perse le tracce dalla sera del 7 maggio 2015 e della cui morte è considerato responsabile Paolo Enrico Pinna, suo compaesano. "A prescindere dal verdetto, chiediamo la verità", ha detto l'uomo prima che il Tribunale dei minori condannasse Pinna a venti anni di carcere. Due anni fa ha perso il figlio, il 29 maggio dello scorso anno è morta sua moglie.

"Nessun tribunale lo potrà mai stabilire, ma a ucciderla è stata questa vicenda, e ora vuole soltanto che il figlio riposi accanto a lei, me lo chiede tutte le volte che vado a trovarla e a portarle i fiori", dice Marco Masala, circondato dall'affetto del figlio più grande, Antonio, delle figlie Alessandra e Valentina. Una famiglia numerosa e unita, che spera solo di poter seppellire quel ragazzo "che non era in grado di fare del male a nessuno", ricorda ancora suo padre a proposito di Stefano. Seguire la vicenda processuale, per lui e per tutti è stato doloroso. "È stato offeso il suo ricordo", ha detto durante la lunghissima attesa della sentenza, iniziata verso le 9.30 e finita poco dopo le 16.

"Per i parenti di Pinna si era suicidato, per i loro legali avrebbe addirittura ucciso Gianluca Monni – scandisce Marco Masala – invece Stefano era un bravo ragazzo e ora vogliamo solo che ce lo restituiscano". Subito dopo il pronunciamento del tribunale dei minori, la piccola comunità arrivata da Nule per stargli vicina lo abbraccia. Le lacrime non rovinano la compostezza di una famiglia che sceglie il silenzio e il riserbo, prende la porta di uscita e abbandona il palazzo di giustizia senza aggiungere altro. "Ci devono restituire Stefano", dice Marco Masala in sardo, un'ultima volta. "Da domani – annuncia – riprenderemo le ricerche".

Quando suona la campana che annuncia la fine della camera di consiglio, l'emozione si taglia a fette. La piccola comunità di parenti e amici di Gianluca Monni, che da Orune si è riversata nell'atrio del tribunale dei minori di Sassari, fatica a trattenere la tensione. Le lacrime iniziano ad affiorare ancora prima che il giudice Antonio Minisola legga la sentenza che condanna Paolo Enrico Pinna a vent'anni di reclusione.

E quando il primo parente esce dall'aula blindatissima, tenuta al sicuro da telecamere e taccuini, tutti lo cercano con lo sguardo. I suoi occhi chiari, lo sguardo fiero, si sciolgono in un pianto mentre un cenno del capo rassicura tutti. "A posto, vent'anni", dice. La notizia rimbalza di bocca in bocca. I genitori del giovane ucciso la mattina dell'8 maggio 2015 si volatilizzano in un attimo. Non hanno niente da dire, non vogliono dire niente. Il resto dei parenti e degli amici resta lì, di fronte all'aula.

Il pianto si fa corale, rimbomba tra gli abbracci e le pacche sulle spalle. Un'emozione difficile da contenere. Non c'è gioia, non ce ne può essere. Ma la sensazione che sia stata fatta almeno un po' di giustizia. Escono dall'aula anche i legali di parte civile. L'avvocato Antonello Cao, che ancora stamattina insisteva sull' inconsistenza delle affermazioni della difesa, ha il viso scavato e gli occhi rossi. Ha pianto anche lui. Ha pianto in aula, insieme ai genitori di Gianluca Monni. Vede i giornalisti, subodora la presenza di telecamere e macchine fotografiche che lo attendono all'uscita. Fa un cenno ai colleghi Rinaldo Lai e Margherita Baraldi, escono da un accesso laterale. Senza dire mezza parole. In fondo, quella sentenza così perentoria ha già detto tutto.