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In una manciata di giorni, chi aveva sperato che l’elezione di Trump potesse riportare gli Usa contemporanei su posizioni isolazioniste, a vantaggio della pace in giro per il globo, si è dovuto rapidamente ricredere.
 
Per attaccare la Siria, l’amministrazione repubblicana ha sfoderato la più consolidata retorica, quella testata, per non andare troppo lontano negli anni, in occasione dell’invasione dell’Iraq. Nel 2003 era stato Colin Powell a mostrate al mondo una fialetta con del non meglio identificato liquido al suo interno, accusando Saddam Hussein di possedere le cosiddette “armi di distruzione di massa”. Fu la motivazione dei bombardamenti su Baghdad, degli stivali sul terreno e della distruzione di un Paese che vantava, tra le altre cose, il sistema scolastico più avanzato del Vicino Oriente.
 
In quattordici anni di guerra l’Iraq è stato catapultato nel medio evo: economico, sociale, culturale. Oggi si dibatte in una guerra infinita, frammentato, minacciato da un integralismo islamista che mai aveva trovato posto prima dell’invasione nordamericana. A distanza di anni la bufala delle armi mai esistite (come affermò, inascoltato, l’ispettore Onu Hans Blix) è stata accettata da tutti con una tranquillità inquietante. E tutti significa sia opinione pubblica, sia leader che allora appoggiarono l’invasione in nome della democrazia. Tony Blair è l’esempio calzante: a distanza di anni ha ammesso che quelle armi non esistevano, sorvolando sulle conseguenze di quel confitto con una serenità che solo gli individui più pericolosi (psicopatici o cinici che siano) possono avere.
 
Evidentemente non pesano sulla coscienza i più di 150mila morti, fatti in base a una montatura propagandistica come quella impersonata da Colin Powell a suo tempo, che trascinò la coalizione dei volenterosi nel massacro iracheno. La storia non insegna, questo è un dato consolidato. E i meccanismi sono sempre gli stessi: si crea un casus belli o si utilizza un fatto preciso dandogli connotazioni e interpretazioni buone per giustificare un atto di forza. Il problema contemporaneo, però, è che tutto questo viene mascherato da umanitarismo, da indignata reazione contro presunte violazioni dei diritti umani. E con alla guida di queste coalizioni democratiche un paese che non può insegnare proprio nulla in merito.
 
Ora, serve ricordare che la Siria ha consegnato le sue armi chimiche sotto supervisione Onu? O ricordare che Carla de Ponte – di certo non sospettabile di essere dalla parte di Assad – nel 2013 affermò che le uniche prove dell’uso di quel tipo di armamento, in Siria, puntavano dritte ai ribelli? Serve dire quel che è stato già detto? E cioè che i bombardamenti siriani alla radice del recente bombardamento statunitense contro la Siria hanno colpito un deposito in cui erano stoccate armi chimiche dei ribelli, gli stessi che le hanno usate contro la popolazione civile nell’Iraq destabilizzato da quattordici anni proprio grazie agli Usa? Probabilmente no. Le analisi sono già state fatte. Gli scenari possibili già descritti. Eppure tutto, sul piano politico e militare, sembra muoversi per inerzia verso una escalation pericolosissima.