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Mercoledì 18 maggio la popolazione della Barbagia-Mandrolisai è stata massicciamente impegnata, a Cagliari, nell'importante manifestazione in difesa dell'Ospedale di Sorgono, per rivendicarne l’operatività con tutti gli strumenti di lotta disponibili. Il San Camillo registra un attacco continuo, mirante allo smantellamento dei servizi essenziali, da cinque anni a questa parte. La chiusura del punto nascite, in primis, ha comportato disagi insostenibili alle gestanti e alle loro famiglie, se si prova a immaginare cosa comporta partorire in un ospedale lontano dalla propria casa. Soprattutto il sottoporsi da parte del coniuge a continui salti mortali, quando non la rinuncia temporanea al lavoro in caso di attività autonoma, per poter raggiungere Nuoro. Comporta una complessa organizzazione all’interno del parentado nel caso vi siano altri bambini a cui badare e il disagio psicologico, da parte della puerpera, nel sapere i propri familiari impegnati a seguire una defatigante tabella di marcia con impegni al limite dell’insostenibilità. Questo è solo un esempio dei disagi, fra i tanti, che l’assenza di medici specialisti e la chiusura del reparto di chirurgia il fine settimana comportano.

L'ospedale di Sorgono rappresenta in questa zona non solo un’importante realtà economica, ma soprattutto il rispetto del principio che la salute è un bene essenziale da difendere e salvaguardare. I “decisori” che fanno discendere le scelte di ridimensionamento dall’aridità dei numeri, non solo in merito ai presidi sanitari ma anche a quelli scolastici e della pubblica amministrazione, dimostrano di non conoscere la nostra realtà territoriale e di non amare, più complessivamente, la propria terra. Non sanno o non vogliono sapere che con le nostre strade i tempi di percorrenza per raggiungere Nuoro o Oristano sono improponibili.

Una popolazione sempre più anziana e sempre più sola non può permettersi di raggiungere altri centri che non siano Sorgono. Ciò che più indigna gli abitanti di questo territorio è il veder calpestato il diritto di continuare a vivere, orgogliosamente, dove si hanno le proprie radici, dove la qualità della vita è percepita migliore rispetto a quella delle città. Questi sono luoghi in cui, sebbene condizionati da un modernismo spesso distorto, vi è la certezza del sussistere di autentiche relazioni sociali. Ci si conosce tutti, ci si guarda negli occhi, ci si ferma a chiacchierare e ad augurarsi la buona giornata quando si acquista il giornale, il pane, la frutta. Se non si vede per più di un giorno un anziano che vive da solo, ci si interroga e si va a bussare alla sua porta. Il ritmo della vita nei nostri territori è “slow”. Non nel senso di lento quanto di regolare, di non frenetico. Il tempo che si impiega in città nella ricerca di un parcheggio o per sbrigare le pratiche da un ufficio all’altro, nelle nostre comunità è risparmiato e messo a disposizione di se stessi e degli altri, delle relazioni fra persone. Tutto ciò però non sembra interessare chi nello Stato ha il potere di decidere e che trova nel governo regionale il fedele esecutore.

Sono i numeri a dettar legge, quasi che il Pil non debba tener conto del benessere che non sia quello materiale. Avevano ragione i nostri nonni a misurare lo stato di salute nell'allegria: "Comente istat?”. “Gi est alligru ", si rispondeva per indicare lo star bene. E’ quell'aspetto che andrebbe riconsiderato. Se sia meglio non sorridere immerso fra la folla, o poterlo fare incontrando un piccolo gruppo di persone, con le quali è certo che "due fesserie le puoi sparare ". Perché i nostri paesi, un tempo fiorenti, non sono più in grado di assicurare un adeguato ricambio generazionale? Diversi esperti hanno effettuato analisi socio-economiche nel merito. Noi che eravamo giovani negli anni 80 sappiamo solo che si è distrutto un florido tessuto agro-pastorale e di artigianato per alimentare il mito dell'industria col miraggio di tanti posti di lavoro. Ha invece lasciato le nostre zone interne alla stregua della terra dei fuochi in mano alla camorra.

Si lascia morire il paese alimentando nelle nuove generazioni la consapevolezza che chi resta non ha futuro, che bisogna cercare altrove le possibilità di affermazione. I giovani preferiscono lasciare il proprio paese ancor prima di iniziare l'università. Se prima si partiva con le lacrime agli occhi, ora si è felici di prendere un aereo. Ciò che manca sono le strutture e i servizi. Per chi non ama il calcio, cosa offrono i nostri territori? Si sta compiendo l'orrida scelta politica di smantellare il poco che é rimasto. Invece ci sarebbe bisogno, oltre che di ospedali e di scuole, di teatri e di sale da concerto, di cinema, di piscine. Il grande impegno della Barbagia-Mandrolisai dev’essere, oltre la lotta per il mantenimento dei presidi istituzionali, anche quello di collocarsi in un'ottica associazionistica per offrire più opportunità a tutti. I nostri boschi, le nostre vigne, le nostre botteghe artigianali, il nostro grande patrimonio culturale lo chiedono e lo meritano. E noi con loro.

di Anna Paola Sau, docente