«Basta seguire la pista dei soldi». Così è stato incastrato Al Capone. Così l’Fbi avrebbe potuto incastrare almeno parte delle persone coinvolte nelle stragi dell’11 settembre. Così abbiamo fatto noi quando stavamo indagando per realizzare il film “Zero”. E la pista dei soldi abbiamo ricostruito: da chi ha pagato a chi ha ricevuto, da chi ha fatto da intermediario a chi ha protetto. Quello che non sapevamo, però, è che per farlo saremo dovuti entrare in un romanzo di spionaggio.
Data la natura di questa vicenda, ho volutamente omesso i nomi dei suoi protagonisti e anche quello di alcune località.
Venni a sapere da un collega della Rai che c’era una persona a Washington che a sua volta conosceva un tizio da qualche parte negli Stati Uniti che aveva prove circa la filiera dei finanziamenti ai terroristi. Iniziai contattando l’uomo di Washington.
Il corteggiamento indiretto durò sei mesi. Tanto ci volle per convincere il misterioso testimone a fidarsi di noi.
In realtà, non ero riuscito ad ottenere un appuntamento, e continuavo a non conoscere l’identità di colui che per mesi avevo chiamato Mister Green. Prendemmo un aereo per Washington. L’unica tappa certa del viaggio.
Restammo nella capitale federale cinque giorni in attesa di conoscere la nostra destinazione definitiva. Nel frattempo accadde un fatto molto strano. Eravamo ospiti in una casa privata. E, mentre eravamo fuori per fare interviste, una ragazzina (teenager) aveva telefonato a casa chiedendo di me, facendo espressamente il mio nome, aggiungendo che visto che non stavo a casa sapeva dove rintracciarmi. Una chiamata che non aveva senso. Non conoscevo nessuna teenager a Washington. E, soprattutto, nessuno, nemmeno in Italia, sapeva dove mi trovassi in quel momento. L’impressione che avemmo tutti quanti, era che si trattasse di una sorta di avvertimento in codice da parte di qualcuno, che voleva a tutti costi farci sapere che eravamo controllati. La Cia? L’Fbi? Qualche altro servizio segreto? Quello che stavamo facendo era già rischioso, lo sapevamo bene, ma dopo quella chiamata ci rendemmo finalmente conto di ciò che ci stava per accadere: di lì a poco avremmo scoperto il segreto dell’attentato più devastante della storia dell’umanità. O forse non saremmo mai riusciti a scoprirlo.
Finalmente, il quarto giorno venimmo a sapere che saremmo dovuto volare a Houston, in Texas. Partenza la mattina seguente.
Decollammo in quattro: io, un assistente di produzione, il cameraman e il nostro amico di Washington. Sapevamo che una volta atterrati avremmo dovuto affittare un’auto e poi attendere ulteriori istruzioni via email.
Il messaggio da Mister Green ci intimava di prendere l’autostrada in direzione Austin. Ci saremmo dovuti fermare in un paesino, probabilmente sconosciuto perfino ai texani doc, e attendere vicino alla cabina telefonica del distributore di benzina. Questo viaggio sembrava sempre più un romanzo di spionaggio.
Arrivammo dopo tre ore di guida attraverso una pianura tutta uguale a se stessa. Il villaggio appariva come il classico cliché dei film sull’America profonda. Il benzinaio non era da meno. Fissai per una ventina di minuti il telefono appeso al muro. Non potevo credere stesse per succedere davvero. Non ero tanto fiducioso che quel telefono potesse squillare. Invece accadde.
La tappa successiva era un motel di un altro paesino in mezzo al nulla, cento chilometri più in là. Di fronte alla nostra camera c’era una sorta di bistrot texano, di quelli che servono uova strapazzate a colazione e hamburger a cena, dal nome quanto mai familiare: Ferrari. La cosa curiosa era che nessuno là dentro, né i camerieri, né tanto meno i proprietari, sapeva che la Ferrari fosse un’auto italiana, e che quindi da un locale del genere ci si potesse anche attendere almeno un piatto di spaghetti o una pizza.
L’attesa questa volta fu ben ripagata. Si avvicinarono al nostro tavolo un lui, sulla sessantina con un cappello da cowboy, insieme a una lei, stessa età con la camicetta, il gilet, i jeans e un paio di stivali di pelle. «Buongiorno, finalmente ci conosciamo di persona. Avete preso una camera nel motel di fronte, giusto? Bene, parleremo lì».
L’attesa fu ben ripagata. Mister Green fu un fiume in piena. Cinque ore di conversazione, un’ora e mezza di intervista e decine di documenti mostrati per dimostrare la storia che stava raccontando.
Di professione era avvocato. In quanto legale di un ex colosso dell’energia mondiale, la Enron, gli era stato affidato il compito di rintracciare una piccola somma di denaro sfuggita al controllo di una sussidiaria del gruppo. Dopo due mesi quei soldi li aveva ritrovati, erano finiti nelle mani di un saudita che stava concludendo un corso di volo a Phoenix, in Arizona. Si era insospettito e aveva indagato ulteriormente. È così che scoprì l’imminente attacco terroristico dell’11 settembre. Provò ad avvertire l’Fbi senza successo. L’esperienza lo convinse che sarebbe stato meglio tacere. Ma dopo quel giorno di strage, due guerre e alcune leggi liberticide si era convinto che bisognava rischiare e vuotare il sacco.
Ecco la sua storia. Venti miliardi di dollari sono partiti dall’Arabia Saudita direzione New York, dove sono stati sequestrati dal procuratore distrettuale di Manhattan, nel corso di un’indagine sul riciclaggio.
Le pressioni politiche, in particolare dell’allora sindaco della città Rudolph Giuliani, sono riuscite a sbloccarli. Quindi, il denaro ha attraversato per la seconda volta l’Atlantico, questa volta in direzione di una banca con sede a Campione d’Italia, un piccolo ma attivo istituto di credito gestito da un saudita e da uno svizzero innamorato di Adolf Hitler convertitosi in tarda età all’Islam e per un paio di decenni sotto contratto con la Cia come collegamento con i cartelli della droga in America centrale.
Una parte dei soldi è finita nel flusso della rete dell’internazionale nera, un’altra parte è rientrata negli Usa, finendo nelle casse della Enron, una multinazionale dell’energia legata al futuro presidente Usa George Bush, al suo vice presidente Dick Cheney e al futuro segretario di Stato Condoleezza Rice.
È stata la Enron a smistare i soldi all’estremismo islamico. Tanti miliardi consegnati al nascente movimento talebano, con i quali si sono finanziati la conquista del potere in Afghanistan, altri soldi finiti a estremisti facenti parte della galassia di Al Qaida, tra cui i diciannove dirottatori dell’11 settembre.
Da: Indygraf di Franco Fracassi – Quello che gli altri non raccontano