L’isola illuministica è stata un’ingenua, assuefatta e mansueta terra di contadini e pastori; contadini e pastori si sarebbero dovuti ribellare per evadere dall’ignoranza sistematica cui erano stati relegati, avrebbero dovuto dire basta alle strozzature baronali, ma respinse il suo illuminismo, respinse (come sempre) la sua storia possibile.
Rigettò in mare la rivoluzione dei lumi, quella che anche con un’Accademia, avrebbe potuto allentare se non sciogliere le catene della sua servitù culturale. Come sempre ci si lascio manovrare dai nobili e dal clero locale, che arruolarono vassalli e cavalieri, riunirono bestiame e denaro, tutto pur di conservare i propri storici agi. Arruolarono anche Sant’Efisio (ma dimmi tu), facendolo apparire in cima al Bastione, mentre i Francesi bombardavano la città (era il 1793). Si era riuscito a fare credere a vassalli e cavalieri, che si stesse difendendo la propria patria, in realtà si stavano respingendo i valori dell’illuminismo e si stava conservando la propria servitù culturale (e anche artistica).
Dopo l’impresa invece, fu destituito anche il viceré Balbiano, che chiedeva un reale riconoscimento per l’impresa isolana. Venne inviata allora una delegazione a corte dall’isola, chiedevano Statamenti militari, ecclesiastici e reali, chiedevano cariche locali, un Ministero degli affari per l’isola e un Consiglio di Stato che controllasse il governo; non furono neanche ricevuti, si era respinto Napoleone e non si venne neanche ricevuti. Sudditi inferociti messi davanti alla loro impotenza e nullità politica, finalmente cacciarono i Piemontesi, questi furono i giorni dell’Aprile 1794 dell’Indipendenza, come andò a finire? Di nuovo nel nome dell’ambizione personale si ripiegò verso la servitù, non ci si sapeva relazionare nel nome di un comune interesse privi di un padrone, ragion per cui si decise di riaccogliere chi si era cacciato, a momenti ci si scusò per quanto accaduto, nulla di personale contro il Re, ci si era semplicemente lamentato dei suoi aguzzini. Si decise di consegnarsi ad aguzzini, viceré, dignitari, ufficiali, funzionari, impiegato, esattori e a chi volete voi arrivasse dall’altrove, poteva nascere un’Accademia di Belle Arti a Cagliari?
Tornarono più cattivi e feroci che mai, l’isola non aveva il protettorato Francese e doveva tenersi l’assolutismo Sabaudo e la sua cara, amata, storica servitù feudale come fatto e consuetudine storica e culturale. L’isola era un Regno, ma di un popolo scarso e frammentato, dipendente economicamente dai baroni, affamata e resa docile dal bisogno (cavolo, proprio come oggi), per i rivoluzionari forche e teste tagliate, nonostante fossero già passati dalla rivoluzione alla fase reazionaria per qualche onore e carica pubblica. Le più alte cariche furono per il Re e i suoi fratelli compensati da incarichi sardi in Piemonte beffardi. L’sola aveva Carlo Felice, aveva la sua statua e la sua strada; gli isolani venivano considerati servili, arretrati e incapaci di gestirsi come popolo sovrano, un pittore di corte (uno dei tanti inutili pittori di corte) li rappresentava come dimessi, unti, bassi e piegati, sottomessi e asserviti dinanzi ai Piemontesi.
Capite cosa vorrebbe dire un’Accademia a Cagliari ancora oggi? La storia dell’arte dialoga lentamente con il suo passato, Accademia vorrebbe dire dimostrare (oggi come allora) che i Sardi non sono così stupidi come i piemontesi li rappresentavano. A proposito, il quadro del pittore di corte (infimo) è ancora nell’ufficio del vicesindaco del Comune di Cagliari, dimenticavo, il pittore di corte era nato a Cagliari ma si formò a Roma (dal momento che a Cagliari non vi era un’Accademia), era Giovanni Marghinotti, e ritrasse anche Carlo Felice come munifico protettore delle Belle Arti nel 1830; a voi risulta che sia nata in quegli anni un’Accademia?
L’opinione di Mimmo Domenico Di Caterino